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Data pubblicazione: mercoledì 4 settembre 2002  

RUBRICHE - SAGGI DI STORIA CALABRESE

Nella pianura di Cannazzi e del Salvatore

Nella pianura di Cannazzi e del Salvatore
di Antonio Tripodi

Siamo presso la croce del Salvatore, località sita nell’agro del comune di Gerocarne al confine col comune di Dasà, segnalata nel foglio n. 246 della Carta d’Italia rilevata dall’Istituto Geografico Militare.
Quel cippo granitico troncopiramidale sormontato da una croce, ora collocato sopra un dado composto con conci anch’essi granitici rinvenuti tra i ruderi del distrutto abitato di Pronìa, fu con ogni probabilità scolpito per ricordare a noi uomini che abbiamo vissuto il passaggio dal secondo al terzo millennio dell’era cristiana che in queste contrade, ora deserte, fino a poco meno di due secoli orsono ferveva la vita e si professavano la devozione a Cristo salvatore dell’intera umanità.
Le due espressioni dialettali iassupr’a Cannazzi e iarried’o Sarvaturi, da tradurre una in Lassopra a Cannazzi e l’altra in Laddietro al Salvatore, indicano due territori tra loro limitrofi e non del tutto topograficamente definiti. Il primo è riferito al pianoro sulla collina lungo la sponda sinistra del fiume Marepòtamo, e l’altro ad una località all’interno rispetto alla strada statale che conduce a Vibo Valentia.
La toponomastica tramanda dopo mezzo millennio la presenza nella zona di una istituzione religiosa, faro di luce spirituale in tempi di sopraffazione e di miseria, dedicata al Santo Salvatore nei dintorni dell’abitato di Pronìa.
Per la chiesa, posta nel territorio dell’allora contea di Arena, l’anno 1310 versò alla Reverenda Camera Apostolica un tarì e diciannove grani per la seconda decima il sac. Nicola che ne era il cappellano o rettore (1).
L’ultima notizia dell’esistenza della chiesa del Salvatore presso il casale di Pronìa si riscontra nella Platea Grande della certosa di Serra, compilata negli anni 1533-34 (2). Il sacro edificio sarà crollato tra la fine del sec. XVI e gli inizi del sec. XVII, perché non c’è alcun accenno nella visita pastorale dell’1 ottobre 1630 (3).
Per l’anno 1325 pagò un tarì e dieci grani il sac. Andrea di Preonìa, che di quel casale dovrebbe essere il primo parroco del quale è pervenuta notizia (4).
Secondo il Marzano l’etimologia del nome Pronìa sarebbe da ricercare nelle parole greche pronèios oppure prònaos, col significato entrambe di situato dinanzi al tempio (5) che si deve supporre quello dedicato al Salvatore.
Si apprende da un istrumento notarile del 9 novembre 1742 che l’attuale località Chieca in territorio di Pronìa era denominata anche Abbazia, a conferma della presenza di una sacra istituzione nella zona circostante (6).
Il casale di Pronìa, nel quale vivevano 87 anime in 34 famiglie, ancora ricordato dal toponimo che ne indica l’ubicazione, fu abbandonato tra il 15 ed il 18 dicembre 1803 a causa del brigantaggio (7). Si trasferirono a Dasà trenta degli ultimi quarantotto abitanti, insieme col parroco Stefano Bruni che del suo paese natale divenne arciprete fino alla morte che lo raggiunse il 31 agosto 1824.
Nelle adiacenze di Pronìa, dalla parte opposta rispetto al Salvatore, il convento dei Minori Conventuali di Arena possedeva una vigna-grangia delimitata in basso dalla sponda destra del torrente Potami. Questa aveva un’estensione di otto tomolate, delle quali una coltivata ad ortaggi e sette con novemila piante di viti ed alberi da frutto. In una casa colonica con annesso palmento vivevano i vignieri che accudivano alla coltivazione della proprietà. Nel mezzo del fondo, dallo strato di arenaria sgorgava una fontanella alla quale si recavano ad attingere l’acqua i detti vignieri. E da quegli uomini che indossavano l’umile saio del Poverello, ancora ai nostri tempi è denominata la fontana dei monaci (8)
Nella pianura intorno al Salvatore si erano stabiliti altri piccoli insediamenti umani, con popolazioni di poco inferiori o superiori al centinaio di anime, assistiti da uno o più sacerdoti.
Tutti questi agglomerati, detti casali, furono abbandonati dagli abitanti nel primo periodo del decennio francese (1806-1815) che vivevano nell’incubo di essere prima o poi sopraffatti in qualcuno dei frequenti assalti delle tante masnade di fuori legge, i cosiddetti briganti, che vessavano gli indifesi nostri antenati. Nelle nostre contrade sono note le atrocità commesse da Domenico Moscato di Vazzano, detto il Vizzarro, e dai suoi famigerati compagni.
La consistenza numerica e la composizione sociale di ciascuno di questi casali si rileva dal catasto conciario del marchesato di Arena, pubblicato l’anno 1791 durante il mandato di Sindaco generale dello Stato di Arena del medico Nicola Carnì di Dasà (9).
Il detto catasto era stato compilato nel 1782, anno precedente ai disastri provocati il 5 e 7 febbraio nella parte centromeridionale della regione (detta Calabria Ultra) ed il 28 marzo in quella settentrionale (detta Calabria Citra) dal terremoto che passò alla storia col terrificante appellativo di flagello delle Calabrie (10).
In direzione sud-ovest , a meno di un paio di kilometri sorgeva Bracciara, detto anche Brazzara con 135 abitanti distribuiti in 52 nuclei familiari.
Per la chiesa, dedicata a San Leone Magno papa, nel 1310 pagò due tarì di seconda decima il parroco Gregorio. Il titolo della chiesa è tramandato da una strada di campagna nelle adiacenze del vecchio abitato, denominata San Leone (11).
Oltre alla parrocchiale nel 1630 era in stato di avanzata costruzione la chiesa filiale di Santa Maria della Catena, e l’1 ottobre di quell’anno il visitatore delegato dal Vescovo esortò i devoti a portarla a compimento al più presto possibile e di dotarla dei sacri arredi e suppellettili necessari per il culto (12).
L’ultima notizia del culto alla Madonna della Catena, della quale la festa si celebrava la seconda domenica di luglio in concomitanza con l’altra assai più importante di Dinàmi, risale al 1805. Il 28 luglio il procuratore Antonino Polìa sottoscrisse a favore di mastro Domenico Bruni l’obbligo del pagamento entro agosto per i fuochi artificiali già sparati per la festa di quell’anno (13). La statua lignea , dopo l’abbandono del casale nel 1806, fu portata dagli abitanti a Dasà dove è custodita in una nicchia nella chiesa parrocchiale (14). Negli anni passati ’60-’70 un comitato composto da quattro devoti organizzava una processione la seconda domenica di luglio con la partecipazione delle due confraternite ancora attive nel paese.
Verso l’est, a qualche kilometro di distanza, era costruito Potami. Questo, con 139 abitanti e 45 famiglie, era uno dei più popolati tra i casali della valle dell’Alto Mèsima.
La prima notizia dell’esistenza, se il nome fu storpiato in Portano dal regio scrivano aragonese, risalirebbe al 5 giugno 1466. Se invece così non fosse, si deve postdatarla di dodici anni per riscontrare l’indicazione di luogo ed attendere fino al 1532-34 per la qualifica di casale (15).
La rinomanza di Potàmi ebbe inizio intorno alla metà del ‘600, con l’introduzione della devozione a San Francesco Saverio dopo una missione predicata nel 1651 dai padri Andrea Augelli e Michelangelo Franchi, entrambi gesuiti (16).
Quell’anno fu commissionato un quadro al pittore Domenico Gimigliano di Serra, l’attuale Serra San Bruno (17). L’abate Giambattista Pacichelli, nella relazione della visita effettuata nella tarda serata del 10 giugno 1693 , scrisse che il santo si vede in piedi vestito di cotta, e stola, con la faccia maestosa, e quasi severa e tre fiocchi di barba (18).
La descrizione del sac. Domenico Martire, vicario generale della diocesi di Mileto nell’ultimo decennio del ‘600, presenta il santo tutto spirante divot(io)ne co’ gli occhj al Cielo sollevati, vestito con la cotta sopra l’habito, la stola al collo, con la destra nel petto, e con nella sinistra il giglio (19).
Negli anni immediatamente successivi, per le continue intercessioni a favore di quanti a lui si rivolgevano, aumentò la devozione verso il santo. L’imperatore Leopoldo nel 1665 offrì una statua argentea del valore di seicento fiorini in ringraziamento per essere stato salvato dall’epidemia di vaiolo. Per le grazie ricevute l’imperatrice, principi, nobili e titolati inviarono in dono paramenti sacri, splendidi calici e candelieri d’argento, lampade ed altri oggetti preziosi (20).
La chiesetta della Madonna della Grazia fu ampliata e sopra l’altare maggiore fu collocato il quadro del santo, al quale fu intitolato il tempio-santuario che divenne patronato dei marchesi d’Arena (21).
L’esodo degli abitanti, quasi tutti stabilitisi a Dasà, avvenne il 14 luglio 1807. I sacri arredi (quelli scampati al terremoto prima ed alle grinfie dei rapaci funzionari della cosiddetta Cassa Sacra dopo) furono trasportati in Arena, stante il già detto patronato vantato dagli ex-feudatari (22).
Nella comunità di Dasà la devozione al Sacro Cuore di Gesù è documentata già dieci anni dopo l’istituzione della festa con la bolla emanata dal papa Clemente XIII il 6 febbraio 1765.
L’anno 1775 l’ancora attiva confraternita dell’Immacolata commissionò al pittore Giacomo Arbascià di Monteleone (l’attuale Vibo Valentia) un quadretto con l’immagine del Sacro Cuore che, racchiuso in una cornice color ceraso, nel 1819 era collocata sopra l’altare maggiore. Si trovava allo stesso posto sessanta anni dopo (23).
Nel 1821 la detta confraternita fu aggregata all’arciconfraternita del Sacro Cuore di Gesù avente sede in Roma nella chiesa di San Teodoro al Palatino. Il relativo diploma, costato 3,60 ducati, è andato disperso circa mezzo secolo addietro (24). E la stessa fine aveva fatto pochi anni prima l’archivio dell’arciconfraternita romana (25).
Per il dissenso dell’arciprete Domenico Maria Viterbo, i confratelli si riunirono in assemblea il 4 agosto 1850, e dopo aver affermato che da circa trenta anni la devozione al Sacro Cuore era solennizzata con ardentissimo fervore, nominarono una delegazione da inviare presso il Vescovo di Mileto onde ottenere da quello l’assenso per la continuazione della pia pratica indipendentemente dal volere dell’arciprete (26).
La statua del Sacro Cuore, prima piccola di legno e da tre anni di vetroresina a grandezza naturale, è collocata in una nicchia laterale nella chiesa della confraternita dell’Immacolata. Pochi anni fa le funzioni del mese di giugno sono state traslate da questa nella chiesa parrocchiale (27).
Nella chiesa parrocchiale di Gerocarne l’altare dedicato al Sacro Cuore fu eretto a proprie spese da Domenico Pàpillo il 17 maggio 1834, come si legge nell’epitaffio di stucco applicato sul pilastro dell’arco centrale a destra entrando. Il quadro, trovato sprovvisto della cornice in occasione della visita pastorale del 23 giugno 1877 (28), probabilmente è stato distrutto dopo l’acquisto della statua di cartapesta leccese datata 1904.
L’arciprete di Dinàmi, d. Paolo Scarano, il 10 ottobre 1858 informò la curia vescovile di Mileto di aver dato esecuzione alla lettera circolare ricevuta tre giorni prima, avendo già provveduto ad aggregare l’associazione della sua parrocchia alla Pia Adunanza del SS°. Cuore di Gesù di Nola (29).
Si apprende dalla dichiarazione del parroco Nicola Corbo che l’oleografia del Sacro Cuore della chiesa di Ciano (frazione di Gerocarne) era stata commissionata prima del 1924, anno della sua presa di possesso della parrocchia (30).
Nelle chiese di Melicuccà e di Monsoreto, entrambe frazioni di Dinàmi, la presenza delle statue del Sacro Cuore è menzionata nei rispettivi inventari compilati nel 1938. Lo stesso anno, a Lìmpidi (frazione di Acquaro), è documentato che era funzionante l’Associazione del Sacro Cuore che alle processioni partecipava col proprio stendardo (31).
Su un altare laterale della chiesa parrocchiale di Acquaro è collocato un quadretto raffigurante il Sacro Cuore che si attribuisce al pennello del locale pittore ottocentesco Giuseppe Galati. Probabilmente stava sull’altare del Santissimo Sacramento nel 1879, come si rileva dalla visita pastorale del 5 luglio di quell’anno (32).
L’ispirazione di d. Pietro Cutuli, da poco meno di tre anni parroco di Dasà, di affidare alla protezione del Sacro Cuore di Gesù la meritoria istituzione sociale e religiosa da lui ideata e fondata, incastona la perla più luminosa nella devozione tramandataci dagli avi di generazione in generazione per oltre due secoli.



n o t e
( La relazione è stata presentata al convegno Il disabile uno di noi svoltosi alla Croce del Salvatore il 28 giugno 2002 )

abbreviazioni :
AS VV = Archivio di stato di Vibo Valentia
ASDM = Archivio storico diocesano di Mileto
AS CS = Archivio di stato di Cosenza
AS NA = Archivio di stato di Napoli
not = protocollo del notaio
f. s. n. = fogli senza numerazione

1) F. RUSSO, Regesto vaticano per la Calabria (1°), Roma 1974, p. 226 (1969).
2) BIBLIOTECA DEL MUSEO di REGGIO CALABRIA, Platea della certosa di Santo Stefano del bosco, (B), f. 259; L. LONGO, La platea dei Ss. Stefano e Brunone, Cosenza 1996, p. 328.
3) ASDM, Atti delle visite pastorali (5°), f. 192.
4) F. RUSSO, Regesto … (1°), p. 290 (4185).
5) G. B. MARZANO, Dizionario etimologico del dialetto calabrese, Laureana di Borrello 1928, p. 345.
6) AS VV, not. G. D. Dagostino, istrumento 09/11/1742.
7) A. TRIPODI, I casali scomparsi dello “Stato” d’Arena e Soreto, dal manoscritto di prossima pubblicazione.
8) A. TRIPODI, La vigna-grangia dei Minori Conventuali d’Arena, in “Historica” XXXVII (1984), n. 4, pp. 202-205; ora in A. TRIPODI, In Calabria tra Cinquecento e Ottocento, Reggio Calabria 1994, pp. 63-66.
9) AS NA, Catasto onciario di Arena e casali.
10) A. TRIPODI, Spigolature documentarie sul terremoto del 1783 nel distretto di Monteleone, in “Rivista storica calabrese” n. s. XXII (2001), nn. 1-2, pp. .
11) F. RUSSO, Regesto … (1°), p. 223 (1907).
12) ASDM, Atti … (5°), f. 191.
13) AS VV, not. G. Viterbo, obbligo 28/07/1805.
14) ASDM, cartelle Bracciara – parrocchia.
15) E. PONTIERI, La Calabria a metà del secolo XV e le rivolte di Antonio Centelles, Napoli 1963, p. 297; G. CROCENTI, La valle del Marepòtamo, Chiaravalle Centrale 1980, pp. 101-102; BIBLIOTECA … , Platea … (B), ff. 233, 253, 261, ect. ; L. LONGO, La platea …, pp. 270, 316, 333, ect..
16) G. FIORE, Della Calabria illustrata (2°), Napoli 1743 rist. anast. Bologna s. d., pp. 267-268.
17) Ibidem.
18) G. VALENTE, La Calabria dell’abate Pacichelli, Chiaravalle Centrale 1977, pp. XLIII-XLV.
19) D. MARTIRE, Calabria sacra e profana, manoscritto in AS CS, vol. I-I, ff. 187-188.
20) Ibidem; G. FIORE, Della Calabria …, p. 268.
21) ASDM, cartelle Potami – parrocchia, f. s. n..
22) Ibidem.
23) A. TRIPODI, Le pitture di Giacomo Arbascià di Monteleone per le chiese di Dasà dal 1773 al 1795, in “Brutium” LXIII (1984), n. 1, p. 12; ora in A. TRIPODI, In Calabria …, p. 342.
24) ARCHIVIO della confraternita dell’Immacolata di Dasà, Libro di introito ed esito, anno 1822 .
25) Notizia comunicata oralmente all’autore dal rettore della chiesa romana.
26) ARCHIVIO della confraternita … , Libro delle deliberazioni, alla data.
27) ASDM, Atti …(19°), p. 180. La presenza nella chiesa di una statua del Sacro Cuore di Gesù, certamente quella lignea di grandezza inferiore al naturale, è documentata il 2 luglio 1879.
28) ASDM, Atti … (17°), p. 477.
29) ASDM, cartelle Dinàmi – vicariato, f. s. n..
30) ASDM, Atti … (36°), fasc. Ciano.
31) ASDM, Atti … (36°), fasc. Dinàmi, Lìmpidi, Monsoreto.
32) Ibidem (19°), f. 214.



Antonio Tripodi, Diacono

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